di Virginia Gidiucci
Ai tempi dei nostri nonni e bisnonni, nelle zone di montagna e nelle campagne, le faccende amorose non erano cosa facili. Le occasioni per incontrarsi erano poche poiché le ragazze erano sempre impegnate con le faccende di casa e, nei momenti di intervallo, dovevano imparare a lavorare a maglia, uncinetto ed al telaio, che sarebbe servito per il confezionamento del corredo della dote, mentre i ragazzi lavoravano lontani dal centro abitato, sulle montagne a pascolare animali o nei boschi a fare il carbone. Nelle poche occasioni sociali che si venivano a creare non si perdeva tempo pur di far capire ad una persona che era corteggiata. Per tutto il resto dei giorni, alle ragazze non restava altro se non desiderare la realizzazione dei loro sogni d’amore; invece di sfogliare la margherita, coglievano uno stelo di gramigna e cominciavano a staccarne le spighe ripetendo:
“Me vo’ bè
Me vo’ mali
Me cuggiona.
Facéme l’amore?” (Balena, 1984)
finché l’ultima spiga non dava una risposta. Nella mentalità pratica del tempo, l’oggetto del desiderio di una giovane consisteva nel trovare un bravo ragazzo, onesto di sentimenti e che fosse un gran lavoratore, in quanto la sicurezza economica era alla base dei progetti familiari futuri. Giunte così alla primavera della loro vita ed alla dolce stagione in cui fioriscono i peschi, le ragazze di un tempo a Montemonaco cantavano:
“Mamma mia, vojo marito
ché così non pozzo sta!
Mamma mia, vojo marito
ché la pèrsica ha fiorito!”
Mentre le madri, più avvedute, cantando rispondevano:
“Fija mia, quanto te nganni:
la pèrsica fiorisce tutti l’anni!” (Polia, 2012)
Varie generazioni di donne hanno tramandato dei metodi di previsione riguardanti il futuro sposo della persona che li praticherebbe, molti dei quali, come vedremo, erano così diffusi da farci intendere quanto queste mantiche amorose fossero credibili; probabilmente la paura di non contrarre mai il matrimonio e quindi di venir additate come “zitelle” o, peggio, di finire in sposa ad un uomo rozzo ed inoperoso, era più forte della presunta validità di qualunque credenza popolare. Sono pratiche che presagiscono gli eventi amorosi futuri della fanciulla che ne fa uso, a volte descrivendo con qualche dettaglio la persona che figurerà come promesso sposo. La tradizione popolare ha fatto ampio uso di pratiche magico‐religiose in tutti gli aspetti che caratterizzano i sentimenti e le vicende umane, non tutte e non sempre concepite a fin di bene.
In questo articolo andremo ad approfondire quelle mantiche amorose la cui pratica si basa sull’utilizzo e sulla lettura di alcune piante. Una di queste pratiche, che generava pronostici amorosi mediante la lettura delle foglie di ulivo, la troviamo diffusa ovunque nelle Marche, in Umbria e in Abruzzo, ed era già in uso durante il XVII secolo, come attestato da P. Maroni nelle “Decisiones prudentiales” che addita: “Quelli che parimente, la sera dell’Epifania, gettano le foglie d’oliva, o, come dicono, le pasquelle, con alcune parole, cioè: Pasqua, pasqua Epifania, etc., credendo che se le pasquelle saltano, habbino d’havere quello che pensano, e, bruciandosi, non debba succedere (94)” (Crocioni, 2001). C’è da premettere che certe pratiche, si credeva, avessero più efficacia se attuate nei giorni considerati fausti nella cultura popolare, come a Natale, Pasqua, Epifania, Ascensione e S. Giovanni. Scrive Crocioni: “Così viva è la smania di prevedere il futuro che taluni, dallo spirito semplice e primitivo, per costringere la fortuna a rivelarsi, s’inducono a sperimentare, con vari mezzi, naturalmente fatui e risibili (…)” (Crocioni, 1951). Le ragazze ascolane ripulivano dalla cenere una piccola area all’interno del piano del focolare (“l’arola”) usando un ramoscello di ulivo. Fatto ciò, adagiavano una fogliolina dello stesso ramoscello sulla piazzola ben pulita e recitavano:
“Pasqua Epifania
che vieni una volta all’anno,
dimmi il vero di quello che ti domando”
Ovvero, l’obiettivo della previsione, e cioè se la ragazza, nell’anno corrente “S’ facié lu spose?” (Polia; 2012).
Se la foglia avesse bruciato sarebbe stato un segno sfavorevole per il futuro amoroso della fanciulla, se invece si fosse accartocciata senza bruciare la giovane poteva ben sperare che la personificazione del suo innamorato si sarebbe presto manifestata. A Monsampolo, se le foglie di ulivo saltavano, era segno che la ragazza di sarebbe sposata entro l’anno. A San Benedetto del Tronto, le giovani della marina, chine sul focolare ripetevano alle foglie:
“Pasqua, Pasqua e bbefanìe,
che vì tre vote l’anne,
dimme la veretà che t’addumanne:
se me vò bè triscie, se no brucete!” (Balena; 1984)
e mentre praticavano la divinazione, bagnavano le foglie di ulivo con la propria saliva. Fatto ciò, le deponevano “sui mattoni roventi del pavimento del focolare liberato dalla cenere. Se la foglia si bruciava, la risposta era “no”; se la foglia si voltava, la risposta era “si” (Polia; 2012).
Con “tre volte” si intendevano la Pasqua di Resurrezione, il Natale e l’Epifania. L’uso della saliva “polarizzava” magicamente il responso rendendolo valido unicamente per la persona che aveva umettato le foglie: la saliva, veicolo della parola, contiene, come il nome, l’energia specifica della persona cui essa appartiene (Polia; 2010).
Un canto campagnolo del fermano recitava:
“La sera de la Pasqua Bbifania
Vòlsi vedé se il bello mio m’amava;
Buttai sul fuoco ‘na brancia d’ulìa,Tutta verso de me s’arrivoltava!” (Mannocchi; 1921)
Naturalmente, se c’erano gli auspici c’erano anche gli scongiuri nel caso la previsione non fosse stata di gradimento. Allora, chi mangiava una vecchia fava secca e tarlata e chi recitava “l’avemaria della Befana” che era il testo della preghiera stravolto in una formula magica (Balena; 1984).
La pratica era chiamata, nelle campagne del circondario di Fermo, gioco delle “Indovinelle” e si procedeva, dopo la solita ed accorta pulitura del piano del focolare, a posizionare due foglie di ulivo l’una sull’altra a mo’ di croce ed inumidite dalla saliva della giovane richiedente il responso che recitava:
“’Ndovina, ‘ndovinella,
che vieni ‘na volta all’anno,
dimme questo che te commanno:
Me vo’ bè lu sposu? Se me vo’ bè, fa un zumpittu e, se non me vo’ bè, statte ferma” (Mannocchi; 1921)
Sempre Mannocchi, unico ad aver testimoniato questa usanza, racconta che i ramoscelli di ulivo venivano colti da alcuni contadini che, “secondo una pia consuetudine”, uscivano nudi durante le fredde notti a strapparli dalle piante e metterli da parte per questa particolare occasione.
Se, come abbiamo visto, per le giovani donne marchigiane non aveva importanza l’uso dell’ulivo benedetto ed anzi, tutte le testimonianze che abbiamo non ne fanno menzione specifica, questo si usava nelle medesime mantiche amorose messe in atto dalle ragazze umbre della Valnerina. Nelle campagne di Leonessa per questi pronostici si utilizzava “la parma biniditta” della Domenica delle Palme accompagnando con la seguente formula:
“Parma biniditta,
se me maritu quest’annu, schizza
sinnò t’ha da sta’ fitta” (Polia; 2010)
In Abruzzo, con le foglie di ulivo, si usavano fare pronostici sul futuro in generale o sull’economia di un individuo, uomo o donna, ed in alcuni luoghi anche pronostici amorosi come ad Atri, dove, la mattina di Capodanno, le giovani che si recavano ad attingere l’”acqua nova” dalla fonte trovavano sempre delle “palme” di ulivo, che gli sposi, prevenendole, vi hanno lasciate. Le foglie di quelle palme (rame) serviranno per i presagi “la mattina” dell’Epifania” (Finamore; 2002).
Un’altra mantica amorosa, ugualmente diffusa come quella con le foglie di ulivo, avveniva mediante l’uso delle fave. Il potere oracolare delle fave era noto già in epoca romana per scopi diversi da quelli che preoccupavano le giovanette delle nostre campagne lo scorso secolo, ma il loro uso fu così ampiamente diffuso che contaminò molti aspetti della superstizione popolare. Nella prospettiva che qui ci interessa, quella della divinazione a fini amorosi, dobbiamo considerare l’assimilazione della forma di questo legume ad una signatura fallica ed a tutto ciò che ne consegue: considerando anche l’associazione simbolica delle fave con i morti, presente già in epoca romana, non è escluso che in questi usi contadini riaffiori inconsciamente il ricordo dell’antichissima credenza secondo la quale gli spiriti degli antenati hanno un ruolo attivo in quanto fecondatori durante il processo di generazione (Polia; 2012).
Nel piceno, un tempo, se una ragazza voleva sapere in anticipo il mestiere o il tipo di uomo che le sarebbe capitato in sorte, doveva cucire in un angolo del suo fazzoletto una fava intera, nel secondo solo una metà del legume, nel terzo un’altra metà ma senza guscio e lasciare vuoto il quarto. Doveva poi riporlo sotto il cuscino la sera prima di coricarsi e al mattino, infilando la mano, doveva tirare fuori il fazzoletto tenendolo per il primo lembo capitato a sorte. Se il primo angolo toccato dalla ragazza conteneva la fava intera, poteva ritenersi sollevata e pensando di diventare la moglie di un uomo facoltoso; se conteneva la metà con il guscio le sarebbe capitato in sorte un artigiano, mentre per quella senza guscio un pover’uomo. Se il lato era quello vuoto, non sarebbe stato quello l’anno in cui avrebbe contratto il matrimonio (Mannocchi; 1921).
Similmente a Pagliare del Tronto, la notte precedente la festa dell’Ascensione, le ragazze mettevano sotto il cuscino tre “zocche” di fava: uno dei semi veniva privato di tutta la buccia, uno soltanto della metà e uno la conservava tutta. Al mattino, senza guardare, infilavano la mano sotto al cuscino e prendevano la prima fava che trovavano. Quella avrebbe pronosticato la condizione del futuro marito: “Se ti toccava tutto vestito, allora si sposava nu signò… na persona più ricca; quello a metà uno né ricco e né povero e quello tutto nudo: nu pover’omm’” (Polia; 2012). Allo stesso modo veniva attuata la mantica amorosa nel maceratese, nella notte del 31 dicembre (Ginobili; 1959). Esattamente identica a quelle adoperate nel piceno e nel maceratese è la mantica documentata tra le giovani abruzzesi di Roccaraso, Rivisondoli ed Ortona a mare (Finamore; 2002).
Un altro modo che permetteva di fare pronostici amorosi sul futuro, anche questo ampiamente noto e diffuso e che include il mezzo attraverso il quale si facevano le previsioni nel campo della botanica, è quello che riguarda l’uso dell’”erba de l’amore”. Dalle descrizioni fatte dalle testimoni dirette di tale pratica sappiamo che si trattava di una pianta dai fiori gialli e dalle foglie tondeggianti, dotata di spiccato potere urticante. Le ragazze se ne applicavano una foglia, contusa con i denti, sul braccio, aspettando un po’ prima di leggere l’esito della loro richiesta sulla reazione provocata: se si verificava una macchia, un arrossamento (“’na rosa”) era segno che l’amore del ragazzo desiderato era sincero e faceva ben sperare, se altrimenti si verificava una piaga o un’ulcera il responso era da interpretare come sfavorevole. Al momento di applicare la foglia, come di consueto, si usava recitare una formula apposita:
“Erba, erba dell’amor,
se me vol ben per amor,
famm un fior;
se me vol mal, famme na bolla;
se me vol ben per forza, famm un fior com ‘na scorza” (Crocioni; 1951)
come questa, risalente al XIX secolo.
La struttura di base per le formule rimaneva la stessa, con qualche piccola variazione in base al lascito orale ed al margine di errore che questo comportava, ma anche in base alla zona ed al periodo storico in cui si inseriva.
“Erba, erba dell’amore,
se mi vuoi bene fammi un fiore,
se mi vuoi male fammi una rosa
o una boja che mi cocia” (Ginobili; 1963)
Un’anziana di Colle di Montegallo ricorda così l’uso della pianta durante la sua fanciullezza: “Io mi ricordo l’erba dell’amore: era piccolina, con foglie piccole (…) la dovevi acciaccare coi denti, te la mettevi poi te la levavi e se la mattina te faceva una rosetta, quello che pensavi te ti voleva bene, se invece faceva delle bolle no. Io na mattina su la Madonna (Santa Maria in Pantano) me n’ho messe tante de ‘ste fogliette: m’ero rovinata tutta…” (Polia; 2012).
Nel fermano le ragazze coglievano l’erba dell’amore e ne facevano mantiche amorose il giorno della festa di S. Giovanni Battista per misurare l’affetto dell’amante ripetendo la formula:
“Erba, se me vo’ bè famme na rosa,
se no famme na piaga verminosa” (Mannocchi; 1921)
Vi è da evidenziare che l’usanza, nelle Marche, era praticata specialmente in occasione della festa di San Giovanni con lo scopo di utilizzare le foglie bagnate dalla fatidica rugiada (“guazza”) (Crocioni, 1951).
Similmente si recitava in Umbria, nelle campagne di Leonessa, dopo l’applicazione sulla pelle della fatidica foglia:
“Erba amorosa,
se me vo’ bbè ce viè la rosa,
sinnò la piaga dolorosa” (Polia,Chavez; 2002)
Ugualmente, in Abruzzo:
“Amor, se me vo’ ben famme na rosa
se no famme na piaga vermenosa” (De Nino; 1988)
A Rivisondoli, la sera della vigilia di S, Giovanni, le ragazze desiderose di un responso sulla loro vita amorosa legavano con un nastro dei gambi di ortica e poi li piegavano da un lato; se la mattina seguente le piante si fossero raddrizzate voleva dire che lo sposo sarebbe stato esattamente come esse lo desideravano, e al contrario (Finamore; 2002). Usanza, questa, rinvenuta soltanto tra le testimonianze abruzzesi.
L’identificazione della pianta è un compito assai arduo; innanzitutto non si ha la certezza che esista una sola erba dell’amore, ma potrebbero esisterne tante quante sono le specie vegetali urticanti della zona. Non si hanno riferimenti univoci sul fatto che la pianta possieda o meno una signatura venerea; solo a Leonessa viene infatti descritta con foglie a forma di cuore, ma nessun'altra testimonianza la rispecchia. Il Ginobili la descrive come “un’erba grassa somigliante alla lupinella che, in primavera, cresce tra il grano” (Ginobili; 1963). Nel piceno, può darsi che l’erba dell’amore si identificasse nell’Euphorbia cyparissas, l’erba cipressina, contenente nelle sue foglie un lattice biancastro irritante (Galiè, Vecchioni; 1999). Questa pianta si poteva raccogliere sul monte dell’Ascensione, forse in quella giornata di festa che coinvolgeva ragazzi e ragazze in giochi e pronostici di vario genere.
Sempre durante la festa dell’Ascensione sul monte omonimo, si usava cogliere, prima di tornare alle proprie case, la cosiddetta “erba della Madonna”, comunemente conosciuta anch’essa come “erba dell’amore”: gli uomini la mettevano sul cappello e sulle orecchie, le donne la collocavano sul seno. Il fiore appassito veniva conservato in casa come amuleto buono per la ricerca de “lu spuse” (Galiè, Vecchioni; 1999).
In base al responso ottenuto dalla mantica prescelta, la ragazza si adoperava a far accrescere e perseverare il sentimento dell’innamorato, o a mutare a suo beneficio l’indifferenza del tale. A volte l’uso delle piante avveniva anche in alcune pratiche dannose per l’onore pubblico di una ragazza e le mantiche più drastiche prevedevano una forte componente magico‐religiosa che si distacca dagli argomenti arborei di cui ci occupiamo. Dalle usanze che abbiamo scelto di descrivere ci traspare, invece, un atteggiamento puro, semplice, fanciullesco, fatto di quella onesta ingenuità e leggerezza che caratterizzava lo spirito popolare di un’epoca che oggi appare così remota.
Bibliografia:
S. Balena, “Folklore piceno. Dalla montagna di Ascoli al mare di San Benedetto”, Edit Edizioni Turistiche, Ascoli Piceno, 1984
G. Crocioni, “La gente marchigiana nelle sue tradizioni”, Corticelli, Milano, 1951
G. Crocioni, “Superstizioni e pregiudizi nelle Marche durante il Seicento”, Ripostes, Salerno, 2001
A. De Nino, “Usi abruzzesi”, Polla, L’Aquila, 1988
G. Finamore, “Credenze, usi e costumi abruzzesi”, Polla, L’Aquila, 2002
N. Galiè, G. Vecchioni, “Il monte dell’Ascensione”, SER, Folignano, 1999
G. Ginobili, “Biricicche di superstizioni e pregiudizi popolari marchigiani”, Tipografia San Giuseppe, Macerata, 1959
G. Ginobili, “Folklore marchigiano”, Tipo‐Linotypia Maceratese, Macerata, 1963
L. Mannocchi, “Feste, costumanze, superstizioni popolari nel circondario di Fermo”, Tipografia Economica, Fermo, 1921
M. Polia, F. Chàvez Hualpa, “Mio padre mi disse. Tradizione, religione e magia sui monti dell’alta Sabina”, Il Cerchio, Rimini, 2002
M. Polia, “Le piante e il sacro. La percezione della natura nel mondo rurale della Valnerina”, Quater, Foligno, 2010
M. Polia, “L’aratro e la barca. Tradizioni picene nella memoria dei superstiti”, Lìbrati, Ascoli Piceno, 2012
Immagini:
1. www.ascolicomera.it proprietà di Ascoli com’era
2. “Commentarii in sex libros Pedacii Dioscoridis Anazarbei de materia medica” di Pietro Andrea Mattioli, tavole di Giorgio Liberale xilografie di Wolfgang Meyerpeck
3. Ibidem 2
4. www.actaplantarum.org “Euphorbia cyparissas”
5. Ibidem 4