XXI edizione // 31 luglio - 1 2 3 agosto 2024

Dai Boschi Sacri ai Grandi Patriarchi

di Virginia Gidiucci
«Ciò che vedo oggi è l’uomo intento a godere dei tesori accumulati in tanto giro di secoli.
Egli va spogliando della sua chioma la Terra; egli saccheggia i magazzini appena ricolmi di carbone,
scavando quelle torbiere dove si incontrano le reliquie dell’uomo ed preistorico e dell’uomo della storia;
egli si inoltra sottoterra come il tarlo e rode disseppellisce le foreste gelosamente riposte e custodite
nel corso di tanti secoli fin dal principio protozoico.»
(Antonio Stoppani, “Acqua ed Aria”, 1882)
Faggeta di monte Prata
Nelle concezioni delle popolazioni arcaiche, secondo una modalità del pensare umano che l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss ha definito “pensiero selvaggio”, gli alberi sono abitati e possiedono un’“anima”. La logica del “pensiero selvaggio” si basa sull’attenzione posta alle qualità sensibili del reale considerate nella loro capacità di fungere da segni, per produrre una continua rete di simboli e significati. Credenze come questa e molte altre sono sopravvissute fino a noi soltanto sotto forma di superstizioni, nelle tracce di un folklore in via di rapida scomparsa, ma le culture presso le quali nacquero tramandano un’antica saggezza, così quelle che consideriamo superstizioni non sono altro che i frammenti sparsi di una scienza antichissima, quando per superstitio si intendeva dire “venerazione religiosa, rispetto del sacro”. Se si risale in questa direzione, si ritrovano i lineamenti di una sorta d’ordine universale che, associando gli alberi agli dei, presentava in maniera mitologica tutto quanto si sapeva delle virtù proprie alle diverse essenze, del ruolo complementare che ciascuna di esse svolgeva nella vita terrestre e poteva svolgere nella vita stessa dell’uomo. Questo sistema di corrispondenze, che univa soprannaturale e natura, risale alle remote origini della nostra civiltà. Come si è detto, la mentalità tradizionale attribuiva agli alberi ed alle piante un’“anima”, ad alcuni di essi di grado superlativo: erano questi gli alberi sacri. Questi esemplari erano considerati sacri perché eletti a dimora non da esseri anonimi, ma dalle divinità, e per questo erano oggetti di culto. Le varie tradizioni ci riferiscono che l’uomo arrivasse a conoscenza di ciò solo attraverso una rivelazione, come un sogno o un’apparizione, un’improvvisa guarigione al loro contatto o una manifestazione oracolare ma che anche certi indizi, una statura eccezionale o qualche peculiarità morfologica loro propria, li avessero additati all’attenzione popolare.
Faggio di Canfaito
Presso le popolazioni barbare dell’Europa, specialmente presso i celti per i quali la misura del tempo era regolata dal Calendario degli alberi, alle varie specie arboree veniva attribuita ad ognuna una divinità; questi alberi prescelti venivano poi isolati e protetti da severi divieti, a volte recintati, ed ai loro piedi sorgevano rustici altari destinati a ricevere le offerte di chi li eresse. Così l’albero poteva arrivare al pieno sviluppo e raggiungere un’età molto avanzata. Probabilmente era intorno a questi alberi designati da coincidenze sovrannaturali che si lasciava crescere il bosco sacro. I boschi sacri erano dei territori che non si potevano in alcun modo alterare, neppure inavvertitamente, senza incorrere in gravi castighi, a volte perfino nella morte; quando si era obbligati a tagliare degli alberi in quella zona, bisognava offrire un sacrificio espiatorio alla divinità che ne era proprietaria. Un esempio di bosco sacro in Italia è il bosco di Nemi, sui Colli Albani, chiamato Nemus Dianae, o semplicemente Nemus, intitolato alla dea della caccia, Diana, che si ritenesse frequentasse quotidianamente le acque del lago in cui gli alberi si specchiano. Il termine latino nemus, come il greco nemos, indica una foresta in cui sono compresi dei pascoli, un boschetto e soprattutto un bosco sacro. Furono certamente questi i più antichi santuari, di molto precedenti alla costruzione dei templi, che spesso sorsero proprio all’interno dei recinti che racchiudevano e proteggevano gli alberi sacri agli dei. Pare che a Creta i némoi fossero preferibilmente situati sulla cima delle montagne, anch’esse divinizzate. 
Monte Sibilla
Per i Celti il bosco sacro era il nemeo, termine che deriva dalla stessa radice di nemus. Secondo i celtisti nem- indicherebbe il cielo “in senso religioso”, e perciò sembrerebbe che il nemeton sia stato la “proiezione ideale di una parte di cielo sulla terra, una specie di paradiso, o meglio di “frutteto meraviglioso”, come se ne incontrano nelle leggende celtiche o di origine celtica” (J. Markale, Merlin l’enchanteur, Retz, Paris, 1981). Il nemeo era in primo luogo “uno spazio aperto e coperto d’erba in una foresta”, quindi una radura, come nemos-nemus. Nella cultura gerarchica del popolo celtico esisteva anche un drunemeton, il “boschetto sacro di querce”, luogo di riunione e culto delle tribù celtologate. Più in generale, era “il tempio druidico in mezzo alle foreste, appartato dal gruppo sociale del quale era tuttavia il complemento spirituale indispensabile” (Markale, 1981).Di uno di questi nemeton galli, situato nei dintorni di Marsiglia, possediamo una descrizione impressionante, destinata a suscitare l’orrore in modo da giustificarne la distruzione ad opera di Cesare, nella Farsaglia di Lucano. Lucano narra che, ricevuto l’ordine di distruggere il bosco sacro, nessuno dei soldati osò sferrare il primo colpo contro quegli alberi temuti, “ma le forti mani tremarono”. Quando Cesare vide che i suoi veterani più ardimentosi rimanevano come paralizzati afferrò un’ascia, la brandì ed abbatté una quercia secolare la cui cima si perdeva tra le nuvole. Poi disse: “Ormai nessuno di voi esiti ad abbattere la selva, ritenete il sacrilegio compiuto da me”. Forse le truppe refrattarie all’abbattimento ed allo scontro col soprannaturale ricordavano quanto accaduto all’esercito guidato dal console Postumio che, penetrato in una foresta della Gallia cisalpina, probabilmente sacra, vide gli alberi piombare sui soldati stessi uccidendoli tutti.
Forca Canepine
Quando i missionari cristiani cominciarono a convertire le popolazioni pagane, uno dei loro primi compiti fu quello di proibire il culto che si rendeva agli alberi e di distruggere i boschi sacri, imprese non sempre prive di rischi. Ne è un esempio la vicenda di San Martino (315-397), anch’esso evangelizzatore, della quale racconta Sulpicio Severo (“Vita Martini Turonensis”) che di passaggio ad Autun, “avendo abbattuto un tempio molto antico ed apprestandosi ad abbattere un pino che sorgeva presso il santuario, incontrò l’opposizione del sacerdote del luogo e della folla dei pagani…”. Uno di essi, più audace degli altri, gli disse: “Se hai un po’ di fiducia nel Dio che dici di onorare, abbatteremo noi stessi quest’albero che cadrà su di te; se il tuo Signore è con te, come dici, sfuggirai”. Martino si lasciò legare nel punto in cui doveva cadere l’albero. Nel momento in cui l’albero crollava, Martino si fece il segno della croce e l’albero lo sfiorò senza toccarlo, risparmiando solo per un soffio i contadini che si erano creduti, invece, al sicuro e che “vinti da questo miracolo, immediatamente si convertirono”. San Maurilio, discepolo di San Martino, ne continuò l’opera; mentre evangelizzava in Comminges, per far cessare i baccanali che degeneravano in massacri e si svolgevano “su una roccia elevata, coperta di numerose varietà di alberi”, incendiò questi alberi durante la notte. Il bosco sacro, bruciato, fu in seguito consacrato a San Pietro (S. Magnoboldo, Vita di San Maurilio). Nella prima metà del VI sec. Benedetto da Norcia distrusse un bosco consacrato ad Apollo nei pressi di Cassino. Il missionario anglosassone San Bonifacio, evangelizzando i Germani, fece abbattere la quercia di Geismar consacrata a Thor. Una cinquantina di anni dopo, nel 772, nel corso di una prima spedizione punitiva contro il popolo sassone degli Angari che aveva invaso l’Assia, Carlomagno distrusse il santuario in cui era venerato “Irminsul”, un gigantesco tronco d’albero cui si attribuiva la proprietà di sostenere la volta celeste. Anche quando il cristianesimo si diffuse, queste pratiche continuarono nei paesi dove erano sopravvissute le credenze relative agli alberi sacri, e fondare monasteri in questi boschi non aveva solo lo scopo di inserirli in un contesto silenzioso e pacifico, ma anche quello di neutralizzare le forze diaboliche che vi abitavano.
Faggeta di San Leonardo
Oggi in Italia abbiamo numerose fonti, nei reperti e nella toponomastica, che accertano la presenza di boschi sacri alle antiche popolazioni pagane, come quello significativo di Monteluco nei pressi di Spoleto. Esistono invece altri boschi che hanno assunto una valenza religiosa, perché magari dedicati ad un Santo che in quei luoghi aveva scelto di farne la sua dimora o che semplicemente di lì era passato, quindi non “sacri”, della sacralità come intesa dal “pensiero selvaggio”. In un intervento del Prof. Roberto Mercurio del 2019 leggiamo che: “Oggi si torna a parlare di “boschi sacri” con il diffondersi del relativismo etico-religioso nelle società post-cristiane occidentali” in primo luogo perché “c’è un tentativo di dare “diritti alla natura” in una chiave etica laico-ambientalista; quindi di “sacralizzare” la natura per esorcizzare lo spettro dei presunti effetti catastrofici dei cambiamenti climatici, e se si vuole, di ritrovare le tracce della cultura sacrale romana pre-cristiana. Parallelamente, si sente la necessità del bosco sacro per un rinato interesse per tutto ciò che è “spirituale”, cioè di un contenitore dove trovare un “benessere” a portata di mano. Infine, forse, per motivi meno nobili, di richiamo turistico-commerciale”.

Al giorno d’oggi, tutte le aree protette, i siti riconosciuti come beni dell’umanità, e qualche antico esemplare che oggi classifichiamo come “alberi monumentali” sono stati, nel tempo, individuati e censiti dagli organi preposti, che si occupano di tutelarli e salvaguardarne l’esito naturale. Una sorta di “consacrazione” moderna, votata non più all’aspetto spirituale della natura sull’esistente, ma sul valore ambientale; per questo, quando si parla di alberi e boschi secolari, se ne parla come di un’eredità collettiva e spesso questi giganti verdi vengono definiti “patriarchi” dell’uomo contemporaneo, a sottolinearne il valore culturale che ospitano.
Acero secolare di Macereto
A volte questi enormi esemplari si trovano isolati dal contesto boschivo, a volte in pieno centro urbano, altre volte siamo al cospetto di interi boschi secolari, dove uno o più esemplari spiccano per vetustà. Sui nostri monti Sibillini possiamo facilmente visitare due macchie secolari di faggi, quella di Macchia Tonda a Pintura di Bolognola (MC) e quella di San Leonardo a Rubbiano di Montefortino (FM), altrettanto nota è la faggeta secolare di Canfaito, ai piedi del monte San Vicino (MC).

Oggi nel nostro paese ci sono ginepri, cipressi, cedri, abeti larici, lecci, olmi, querce, tigli, castagni, , faggi, carrubi ed altre specie che appartengono a proprietari pubblici o privati ed hanno storie diverse. Sono eroi del passato, guerrieri del presente, avamposti della vita come noi la conosciamo, a volte protagonisti della storia e della leggenda, indicatori del tempo, della civiltà, simboli del costume, punti di riferimento per uccelli, pastori, monaci, viandanti, amanti e briganti. Sono soprattutto alberi che non passano inosservati. Sono spesso scavati nel tronco, segnati nelle radici come i reduci dalle più dure battaglie. Patriarchi perché sono alberi padroni, ma anche paterni, incutono rispetto non soggezione. Di questi antichissimi alberi abbiamo un censimento ad opera del Corpo Forestale dello Stato, che viene aggiornato annualmente ed attraverso cui possiamo individuare alcuni degli esemplari regionali ricchi di secoli di storia ed è consultabile dal sito del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. Oltre a quelli censiti, la nostra regione è ricca di altri grandi “patriarchi vegetali” che non rientrano però nell’elenco ministeriale. Per Patriarca o Albero monumentale si intende un soggetto vegetale che possieda almeno uno dei seguenti requisiti: dimensioni, longevità, rarità (riferita al contesto ambientale in cui si trova la pianta), requisiti storici (se la pianta è legata ad un evento storico rilevante) e requisiti paesaggistici e storico-architettonici (complessi monumentali).
Faggio di Canfaito
Uno dei più noti alberi monumentali delle Marche è il platano secolare visibile dalla SS4 a pochi chilometri da Ascoli Piceno verso Roma, reso celebre dall’errato collegamento al brigante Giovanni Piccioni e quindi rinominato “l’albero del Piccioni”. L’errore è probabilmente dovuto al fatto che la località in cui si trova il platano (che misura 850 cm di circonferenza) è detta Case Piccioni e, forse l’aspetto monumentale della pianta, il cui interno forma una cavità capace di ospitare una persona di piccola statura, ha dato vita nella cultura popolare a leggende che vedevano rifugiarvisi il brigante Piccioni senza che, però, vi sia alcun dato storico che lo dimostri, se non uno scontro di modeste dimensioni in una località limitrofa, ma che non contemplava nessun avvenimento adiacente o riguardante l’albero in questione. Altri due esempi di alberi monumentali iscritti nell’elenco del CFS sono due castagni di imponente grandezza, uno in frazione Umito di Acquasanta Terme (AP) ed uno in frazione Morrice di Valle Castellana (TE) (Elenco alberi monumentali regione Abruzzo). Il castagno di Umito, ormai morto e stimato a circa 300 anni di età, è facilmente raggiungibile dalla strada che porta alle cascate della Prata e della Volpara, si trova proprio all’inizio del percorso, a fianco dell’agriturismo Laga Nord scendendo di poche decine di metri il fosso della Montagna, ed è conosciuto dalle persone del luogo come “lu piantò de Scroccò”, a cui in tempi più recenti è stato attribuito il soprannome di “Patriarca dei patriarchi”: seppure sarebbe un peccato perdere nel parlato comune il nome originale attribuito a questo castagno, non facciamo fatica a capire il perché si è cercato di dare un soprannome così enfatico ad un albero che attraverso i suoi frutti ha sfamato e sostenuto intere generazioni di persone, non poche considerando i suoi 760 cm di fusto, e costituisce tuttora un esempio reverenziale di produttività nel tempo. L’altro castagno monumentale, ad oggi il secondo più grande (per dimensioni del fusto) dell’Italia peninsulare, noto a tutti come “il piantone di Nardò” (“lu piantò de Nardo’” con la “o” chiusa accentata, nel gergo popolare) è facilmente raggiungibile dall’abitato di Morrice e si trova immerso in un castagneto secolare in cui l’esemplare di 1290 cm di circonferenza è soltanto il più grande tra una schiera di colossi dal fascino magnetico.
Forca Canepine

Considerando la stretta relazione che l’uomo ha avuto fin dall’antichità con le varie specie arboree per scopi e funzioni diverse, vogliamo dedicare una rubrica mensile al recupero di queste antiche tradizioni che hanno contribuito non solo allo sviluppo individuale dell’uomo ma all’evoluzione stessa della specie, innescando meccanismi che hanno portato alle più grandi scoperte di cui oggi usufruiamo. Attraverso fonti e ricerche raccolte ed elaborate da studiosi, affronteremo una tematica mensile diversa con un approccio al simbolismo di alcune specie vegetali considerate da pastori e contadini espressioni del sacro; basandoci sulla “liturgia contadina” vedremo quali erano le piante che accompagnavano il ciclo dell’anno, o erano protagoniste nelle celebrazioni solenni o di credenze ad uso popolare, così da scoprire quanto della natura che ci circonda e che troppo speso diamo per scontata ha un tempo influenzato chi ci ha preceduto.
Bibliografia:

A. Alesi, M. Calibani, A. Palermi, “Monti della Laga, guida escursionistica”, SER, Folignano, 1990
A. Alessandrini, “Il tempo degli alberi”, Edizioni Abete, Roma, 1990
J. Brosse, “Mitologia degli alberi – dal giardino dell’Eden al legno della croce”, Rizzoli, 1991
J. Brosse, “Storie e leggende degli alberi”, Edizioni Studio Tesi, Roma, 2020
V. Capodarca, “Abruzzo, sessanta alberi da salvare”, Edizioni il Vantaggio, Firenze, 1988
V. Capodarca, “Alberi monumentali delle Marche”, Roberto Scocco Edizioni, 2008
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